Da Boscoreale al Louvre, la "fuga"
del tesoro Le vicende che accompagnarono il rinvenimento del "Tesoro di Boscoreale" e la sua esportazione clandestina in Francia restano ancora avvolte nel mistero, nascoste in un'atmosfera quasi leggendaria. Il fitto carteggio, le denunce, le relazioni, le polemiche, lo scandalo, che emergono dallo spoglio dei documenti e dei giornali d'epoca, contribuiscono solo in parte a chiarire le vicende che accompagnarono la scoperta, sulla quale tuttavia si coglie una sorta di omertà e di tacito consenso da parte delle autorità preposte alla tutela delle cose d'arte. Tutti sanno qualcosa, i giornali francesi e italiani fanno un gran chiasso in proposito, in Parlamento si grida allo scandalo, ma nessun personaggio -a partire dagli operai incaricati dello scavo, fino al ministro dell'Istruzione e al procuratore generale della Corte d'appello -sono in grado o vogliono produrre prove concrete contro il proprietario del fondo in cui era stata fatta la scoperta: Vincenzo De Prisco, funzionario del ministero delle Finanze, archeologo dilettante, per passione e soprattutto per interesse.
Seguendo il trasferimento clandestino degli argenti di Boscoreale e il rinvenimento di numerosi altri oggetti preziosi o di uso comune, venduti in Italia e all'estero, emerge -accanto alla connivenza o all'ingenuità di alcuni personaggi dell'epoca - un 'Italia unita da troppo pochi anni per poter disporre di una legislazione unificata ed efficace nella tutela dei beni culturali. Per il territorio napoletano, non resta che appellarsi ai superati decreti ferdinandei, ai quali più volte si fa .cenno, ma che non rispondono alle mutate condizioni politiche della nazione. Siamo negli anni del secondo governo Crispi (dicembre 1894 - marzo 1896), caratterizzati sul piano economico da una energica azione promossa dal Sonnino, ministro delle Finanze per risanare il bilancio e riordinare la circolazione e il credito, attraverso una politica di fortissime economie e l'aumento del carico fiscale. Ai settori meno produttivi come l'Istruzione, che comprende anche gli scavi archeologici e le Belle Arti, è destinata una parte esigua delle finanze dello stato, volte piuttosto a coprire le ingenti spese della politica coloniale. Inutile risulta quindi l'appello del Direttore del Museo di Napoli al ministro per ottenere nuovi fondi di tale entità da permettere l' acquisizione alle collezioni statali di oggetti rinvenuti in terreni di proprietà privata. La politica estera di Crispi, ancora una volta impostata in senso triplicista e antifrancese, rende vana la richiesta dell'archeologo Giulio De Petra di utilizzare le vie diplomatiche per ottenere dalla direzione del Louvre notizie circa l'esportazione clandestina del "tesoro di Boscoreale", nella speranza di un eventuale recupero.
Ad accrescere i dubbi e a confondere le idee agli addetti ai lavori contribuisce
l'incertezza legislativa: in mancanza di una regolamentazione nuova, ci si
appella ancora ai decreti dei passati governi. Inizia così uno stillicidio di
violazioni delle vecchie leggi, che sono adottate sì dal nuovo stato ma vengono
considerate inapplicabili dalla magistratura.
Il tono della
richiesta appare volutamente ambiguo, poiché il De Prisco parla di una
generica "autorizzazione", senza specificare se essa si riferisca
ancora alla cava di lapillo o piuttosto allo scavo di oggetti di antichità. I
lavori procedono dietro autorizzazione ministeriale sotto la sorveglianza del
direttore del Museo di Napoli Giulio De Petra e dell'ispettore Sogliano,fino al
rinvenimento di una caldaia e di altri materiali in bronzo. Per essi lo
scopritore propone una vendita allo stato, ma per una cifra tanto alta che non
può essere presa in considerazione dai funzionari degli scavi, e neppure dal
ministro. Il primo rinvenimento di una certa importanza -e l'inizio della
polemica con il De Prisco - risalgono al primo febbraio 1895, quando il
direttore De Petra telegrafa al ministro che negli scavi è stato ritrovato un
"bustino muliebre" d'argento, forse raffigurante Agrippina, in
perfetto stato di conservazione e databile al I secolo d. C.; il proprietario
del fondo, aggiunge, ha già ricevuto un 'offerta di duemilacinquecento lire per
l'acquisto.
Con un improvviso cambiamento di umore, il ministro accusa il direttore di avere
sperperato le risorse economiche del Museo in altre spese perdendo così
l'occasione di arricchire le collezioni statali con oggetti di rilevante
importanza. Inoltre rincara le accuse affermando che "fu certamente grave
errore permettere gli scavi di Boscoreale", e che si sarebbe dovuto
prendere a modello il periodo della direzione del Fiorelli che non concesse mai
ad "alcuno il permesso di scavi presso Pompei". La lettera di
ingiustificata polemica nei confronti del solerte direttore del Museo di Napoli,
accusato velatamente di incompetenza per aver espresso parere favorevole agli
scavi e non aver previsto l'importanza dei ritrovamenti, si conclude con un
invito ad "escogitare... un qualche modo di salvare pel Museo di Napoli
almeno alcuni di quelli oggetti". A distanza di pochi giorni, in una nuova
lettera al De Petra, il Baccelli pensa di risolvere sbrigativamente la questione
revocando l'autorizzazione a Vincenzo De Prisco, dal momento che a questi
era stato permesso di scavare nel suo fondo con scopi ben diversi dal
rinvenimento di materiali archeologici.
Prima che ci sia il tempo di riflettere e decretare sull'argomento scoppia lo scandalo. "Da fonte sicurissima" viene riferito alla direzione degli scavi di Pompei, e con una concitata relazione del 24 giugno 1895 il De Petra trasmette al ministro Baccelli la notizia, dell'esportazione clandestina a Parigi, da parte dell'antiquario napoletano Ercole Canessa, di una "collezione di ventotto vasi antichi di argento", che era stata presentata agli inizi del mese di giugno sul mercato antiquario della capitale francese. Poiché nessun privato era stato in grado di fare fronte alla richiesta di centoventicinquemila franchi, lo stesso Canessa si era presentato alla direzione del Museo del Louvre, portando un gruppo ancora più numeroso di vasi d'argento, per i quali chiedeva un prezzo di mezzo milione di franchi. Che il Canessa già in passato avesse lavorato per la vendita di oggetti estratti dagli scavi De Prisco e regolarmente autorizzati, era fatto noto alla direzione del Museo Archeologico. Il De Petra confida nell'aiuto del ministro per ottenere, per via diplomatica, dai responsabili del Louvre prove inconfutabili della colpevolezza del De Prisco. Una brusca e immediata risposta del ministro esclude invece il ricorso alle vie diplomatiche, aprendo piuttosto la possibilità di un 'indagine condotta dall'autorità di Pubblica Sicurezza della provincia di Napoli, non contro i proprietari del fondo, bensì contro l. i custodi che prestavano servizio nella zona della "Pisanella". Con autorizzazione ministeriale in data 5 luglio, tuttavia, De Petra sporge querela al procuratore del Re contro Vincenzo De Prisco e conniventi, e costituendosi contemporaneamente parte civile chiede il patrocinio della Reale Avvocatura Erariale.
Frattanto cerca prove sulla colpevolezza di De Prisco attraverso le notizie riportate dai giornali francesi, spergiurando invece sulla buona fede e l'assoluta estraneità ai fatti delle guardie assegnate alla custodia dello scavo. Infatti, il rinvenimento del tesoro di argenterie può essere avvenuto in qualche giorno di cattivo tempo o festivo o anche di notte, quando, in assenza dei custodi, il De Prisco "ha potuto aver l'agio di scavare clandestinamente". Le ipotesi formulate da De Petra trovano conferma nell'inchiesta svolta da Pasquale Cobianchi, sottoprefetto di Castellammare di Stabia e delegato di Pubblica Sicurezza, che -ascoltate le testimonianze di Antonio Cirillo ufficiale postale, e degli operai scavatori Luigi Prisco, Giovanni Arpaia, e Michele Prisco -arriva alla conclusione che nel il mese di giugno 1895 Vincenzo De Prisco era a Parigi, dove si trattenne parecchi giorni -forse in compagnia dell'antiquario Canessa -per la vendita dei preziosi reperti. Dalle testimonianze degli operai si deduce che durante lo scavo, quando il capomastro Michele Finelli, uomo di fiducia dei proprietari, si accorgeva della presenza di qualche oggetto in metallo prezioso, immediatamente lo ricopriva di terra e allontanava gli uomini di fatica, "curando poi di estrarlo" in un altro momento "per non far scorgere che cosa fosse". In particolare i tre operai concordano nel testimoniare che il giorno 1 aprile 1895, Sabato Santo, il Finelli nello spostare una "mano di lapilli da una specie di pozzo, scoprì alla vista di quelli che gli erano vicino molti oggetti che dal luccichio mostravano appunto di essere di metallo prezioso". Vincenzo De Prisco fece allora ricoprire lo scavo e - benché fosse ancora giorno - mandò via gli operai, dando loro doppia paga e rimase sul fondo insieme col Finelli. Nessuno dei tre testimoni è in rado di dimostrare che in quella occasione fu rinvenuto il celebre tesoro di argenterie poi esportato in Francia, ma tutti concordano - con una sorta di malcelata acredine -che gli oggetti preziosi erano sempre nascosti e sottratti dal proprietario agli sguardi indiscreti degli addetti ai lavori. La testimonianza del fedelissimo Michele Finelli non getta nuova luce sull'indagine. "Ignoro completamente che i sig.ri De Prisco abbiano rinvenuti degli oggetti di metallo prezioso. So che ne hanno trovati alcuni di terracotta e due vasche per bagni di bronzo...", afferma alle pressanti domande del delegato di polizia e termina la sua deposizione con un secco: Null’altro so. Contemporaneamente all'indagine giudiziaria, viene svolta una ricerca da parte del senatore Francesco Brioschi, che ne rende noti i risultati in una lettera dell'agosto 1895 al ministro Baccelli. La relazione prende le mosse da una serie di riflessioni sull'incompletezza del decreto di Ferdinando I del 14 maggio 1822 e sulla cattiva applicazione di tale regolamento, poi passa a occuparsi dei rapporti intercorsi tra Vincenzo De Prisco e la direzione del Museo di Napoli. Alle numerose proposte di vendita di oggetti da parte del proprietario del fondo, De Petra -secondo le indagini svolte dal Brioschi -aveva sempre risposto negativamente a causa dei persistenti problemi finanziari, fino a una lettera, in data 23 marzo, nella quale comunicava addirittura al De Prisco che gli oggetti da lui rinvenuti "non hanno... nessuna importanza speciale. Ella quindi può farne a suo piacimento quell'uso che creda migliore. E questo valga anche per tutti gli altri oggetti da lei denunziati fino al detto giorno".
Questo atteggiamento di "somma indifferenza " e la
"mancanza di mezzi di acquisto" avrebbero invogliato il De Prisco
- interrogato personalmente dal senatore Brioschi -"al grave passo del
trafugamento dei noti vasi di " argento. "Il fatto è certamente
biasimevole, anche ammettendo le attenuanti", continua il Brioschi, ma,
appellandosi all'articolo 5 del decreto ferdinandeo Vincenzo De Prisco si
è dichiarato unico proprietario degli oggetti scavati, e quindi padrone di
venderli al migliore offerente. Qualche sospetto di complicità, o meglio di
negligenza, viene addebitato alle guardie Carpentieri e Iannone ed esclusa
invece per il terzo custode di nome D'Amico, imputabili più all'ignoranza che
alla cattiva fede. Più severa è l'opinione del Brioschi su Giulio De Petra,
che pur giudicato "scienziato di valore.. . persona onestissima... e uomo
buono "viene ritenuto incapace di occuparsi di cose diverse dai suoi studi,
e, mancandogli "le qualità di uomo d'azione, non tutta l'opera sua egli ha
potuto porgere a costituire quel tipo di direttore degli Scavi, che lo stato
può desiderare". Sempre più urgente si presenta perciò, dopo il
"doloroso fatto di Boscoreale", la necessità che "prendendosi
siccome punto d partenza il rescritto Ferdinandeo, si formuli un regolamento
temporaneo, al quale funzionari d qualunque grado debbano attener: nella materia
degli Scavi". La completa indagine svolta dal senatore Brioschi, i suoi
dubbi e le sue incertezze
per la mancanza di una chiara regolamentazione inducono il ministro Baccelli,
nel successivo mese di settembre ad inviare una relazione al senatore Giuseppe
Borgnini, procuratore generale della Corte d'appello di Napoli. In essa il
ministro- facendo sue molte delle conclusioni del Brioschi -si chiede se è il
caso che il governo dia seguito al procedimento giudiziario iniziato contro il De
Prisco, oppure sia preferibile "addivenire con lui ad un bonario
componimento", che avrebbe il vantaggio di "eliminare scandali e
recriminazioni". Per assicurare un buon andamento alle trattative e
soprattutto per non compromettere il prestigio del Governo, l'iniziativa
dell'accomodamento - continua diplomaticamente il ministro Baccelli -dovrebbe
partire dal sig. De Prisco".
Frattanto,
nella proprietà De Prisco a Boscoreale, i lavori di scavo, nonostante il
divieto, continuano fino all'intervento dei carabinieri, inviati il 4 dicembre
1895 dal prefetto di Napoli su richiesta del ministro dell'Istruzione. Nell'Italia
dei compromessi e dell'approssimazione viene intanto emessa la sentenza a carico
del De Prisco, con l'indicazione a "non farsi luogo a procedimento
penale per inesistenza di reato", non esistendo prove concrete
dell'esportazione clandestina. Inoltre gli
viene riconosciuta la possibilità di proseguire i lavori di scavo nei quali
egli non "fece altro che esercitare il suo diritto di proprietà, senza
contravvenire menomamente al disposto del Decreto Ferdinandeo".
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